Le controverse ricerche della psicologa statunitense Elizabeth Loftus sui meccanismi con cui si creano e si fissano ricordi hanno messo in discussione l’attendibilità dei testimoni oculari.
Agli inizi della sua carriera come psicologa, seduta alla caffetteria della Stanford University, in California, Elizabeth Loftus raccontava a una cugina il suo ultimo successo nella ricerca. Il laboratorio dove lavorava aveva scoperto che le persone sono più rapide nel trovare nella memoria il nome di a bird that is yellow (un uccello giallo) rispetto a a yellow bird (la forma contratta dell’espressione, comune nella lingua inglese). «Certo che lì usate bene, i soldi dei contribuenti», disse la cugina.
È cosi che, punta sul vivo, Loftus decise di cambiare l’oggetto delle sue ricerche, rivolgendo l’attenzione a qualcosa con maggiori ricadute pratiche. Iniziò cosi a studiare i meccanismi di creazione e fissazione dei ricordi, l’argomento per il quale diventerà famosa e verrà classificata al cinquantottesimo posto trai 100 più eminenti psicologi del XX secolo nell’elenco pubblicato nel 2002 sulla “Review of General Psychology”.
Nei primi studi si concentrò sull’attendibilità dei testimoni oculari: con un famoso esperimento che riguarda la ricostruzione di un incidente tra due auto, pubblicato nel lontano 1974, Loftus dimostra quanto poco si possa contare sulle memorie di chi afferma di essere stato presente al momento dell’impatto.
«Dopo la pubblicazione di una versione divulgativa dello studio su “Psychology Today”, il mio telefono comincio a squillare, e da allora non ha praticamente mai smesso», racconta. «Erano avvocati che mi chiedevano di testimoniare in tribunale a favore dei loro assistiti contro i quali era disponibile solo una prova testimoniale a carico».
Da allora Elizabeth Loftus e stata testimone in più di 100 processi negli Stati Uniti, tutti casi nei quali ha lavorato per smontare le accuse basate sulle testimonianze oculari e, dopo aver dimostrato la possibilità di indurre falsi ricordi, anche su memorie emerse durante psicoterapie o recuperate dopo anni e riguardanti l’infanzia, le cosiddette memorie infantili represse.
È stata anche citata per danni morali e materiali da alcune presunte vittime di maltrattamenti per aver messo in dubbio la veridicità dei loro racconti e delle loro sofferenze, ma è sempre stata prosciolta dall‘accusa di aver testimoniato per interesse. «Mi limito a riferire ciò che la scienza sa su questi argomenti e ciò che ho scoperto lavorando in questo campo», spiega. «Inoltre non e quasi mai successo che la mia testimonianza sia stata dirimente per l’assoluzione: ci sono sempre altri elementi a favore dell’imputato. Infine penso che e sempre meglio mandare libero per errore un colpevole che condannare un innocente. Che io sappia, nessuno di quelli andati assolti in processi ai quali ho partecipato ha poi commesso altri reati gravi. Se accadesse mi sentirei davvero molto male».
L’Esperimento dalle false memorie
Nel 1990 Loftus ricevette una delle tante telefonate da un avvocato. Era il difensore di George Franklin, un uomo accusato dalla figlia di aver ucciso, molti anni prima, una sua amica, Susan Nason. La figlia di Franklin aveva sporto denuncia dopo una serie di sedute di psicoterapia durante le quali erano “emersi” ricordi rimossi per decenni, tra i quali quelli dell’omicidio. Malgrado l‘assenza di altre prove attendibili, Franklin era stato condannato. Era in prigione. L’avvocato voleva che Loftus testimoniasse sull’inattendibilità di un ricordo cosi vecchio, ma il punto che stuzzicò la curiosità della psicologa fu un altro: e possibile costruire e impiantare nella memoria di un individuo ricordi fittizi? Nel frattempo, dopo cinque anni di prigione, Franklin aveva vinto l’appello ed era stato scagionato, sulla base di precedenti legali che avevano messo in dubbio l’attendibilità delle memorie infantili, specie se recuperate con anni di ritardo.
Elizabeth Loftus e la sua studentessa Jacqueline Pickrell erano pero partite con un nuovo progetto di ricerca, il cui scopo era indagare le false memorie: non dettagli aggiunti a ricordi reali, ma eventi mai accaduti.
Per farlo avevano selezionato 24 partecipanti tra i 18 e i 53 anni ai quali, con la collaborazione dei familiari, venivano presentati quattro episodi importanti della loro infanzia. Tre di questi erano realmente accaduti ma uno, teoricamente collegato a un momento di stress, era del tutto inventato: alla persona veniva fatto credere di essersi persa in un centro commerciale all’età di cinque anni. Il
«ricordo» era ricco di particolari come pianti, paura, un lungo momento di solitudine, una donna anziana che si impietosisce e aiuta il piccolo a ritrovare i genitori.
Ai partecipanti veniva chiesto di leggere i dettagli dell’evento inventato e di quelli reali su un libretto e di indicare che cosa ricordavano e che cosa no. Avevano così sotto mano una lista di 72 elementi veri – raccontati dai familiari – dei quali ricordavano circa il 68 per cento.
Il 29 per cento dei partecipanti affermava però di ricordare a grandi linee anche l’evento fittizio, un tasso che si riduceva al 25 per cento dopo un interrogatorio più approfondito. Secondo questo studio le memorie vere si distinguevano da quelle false per alcuni particolari: nel descrivere eventi realmente accaduti i partecipanti usavano più parole e più dettagli rispetto agli eventi falsi. Inoltre i ricordi reali apparivano più chiari e quelli falsi più confusi.
Un ragazza alla quale era stato fatto credere di essersi persa in un K-Mart, un grande magazzino di una nota catena statunitense, aveva usato solo 90 parole per descrivere il falso ricordo contro 349 parole per quello vero. E anche chi, a un colloquio approfondito, finiva per identificare correttamente l’episodio come falso, all’inizio andava in confusione, come riporta la trascrizione di quanto detto da uno dei volontari reclutati per l’esperimento, pubblicato nel 1995 su «Psychiatric Annali»: «Vagamente… Proprio una cosa vaga… Ricordo la signora che mi aiuta e Tim e la mamma che fanno altro, ma non ricordo di aver pianto. Voglio dire… Ricordo centinaia di pianti… Ma solo sprazzi di questo. Ricordo di essere stato con una signora. Ricordo che facevamo shopping… Non penso però di ricordare altri dettagli».
Lo studio dimostra quindi che e possibile indurre in una persona ricordi di fatti mai avvenuti: «Non facciamo alcuna affermazione sulla percentuale di ricordi che possono essere stati indotti. Ci limitiamo a dimostrare che il fenomeno esiste», scrive Loftus nella discussione del lavoro.
Le critiche e le conseguenze
Il lavoro di Elizabeth Loftus e l’uso che ne è stato fatto successivamente nelle aule di tribunale, in primo luogo da lei stessa, è stato molto contestato. Innanzitutto, nell’esperimento del centro commerciale i partecipanti credono che sia un membro della loro famiglia, in cui hanno fiducia, ad aver riferito per primo quel ricordo. È quindi più facile manipolare la memoria di qualcuno emotivamente vicino o nei confronti del quale si esercita una qualche autorità.
Una seconda obiezione, secondo la quale perdersi in un negozio e un evento relativamente comune nella vita dei bambini mentre sarebbe più difficile indurre falsi ricordi per eventi meno frequenti, è stata smentita dagli studi di Ira Hyman, psicologo della Western Washington University di Bellingham, negli Stati Uniti, che con i suoi esperimenti ottiene percentuali di ricordi indotti analoghe a quella di Loftus, anche se si tratta di fatti piuttosto rari, come rovesciare una ciotola di punch sui genitori della sposa durante un matrimonio.
Per indurre falsi ricordi così complessi è però necessario avere accesso ad alcuni elementi veri dell’autobiografia del soggetto: per questa ragione Loftus sostiene che gli psicoterapeuti sono le persone che più facilmente possono manipolare i ricordi di un individuo, fino a portarlo ad accusare i propri familiari di crimini o molestie mai accadute.
«Vent’anni di ricerca sulle distorsioni della memoria non lasciano dubbi sul fatto che questa può essere alterata attraverso la suggestione. Le persone possono essere portate a ricordare il passato in modi diversi, e possono persino ricordare interi eventi che non hanno mai vissuto. Quando accadono distorsioni di questo tipo, le persone hanno fiducia nei loro ricordi distorti o falsi e spesso continuano a descrivere le pseudomemorie con precisi dettagli», scrive Loftus. «Questa scoperta – prosegue la psicologa – spiega come possano esistere casi nei quali i falsi ricordi sono sostenuti con fervore, come quando le persone ricordano cose che sono biologicamente o geograficamente impossibili. L’esperimento del centro commerciale non ci dà però strumenti affidabili per discriminare tra vere e false memorie e di fatto, in assenza di una conferma esterna, questa distinzione è generalmente impossibile».
di Daniela Ovadia
illustrazioni di Stefano Fabbri
Da Mente & Cervello
n. 110 febbraio 2014